Una splendida, calda serata romana di primavera. Un lungo viaggio in macchina addolcito da un traffico meno frenetico del solito (salvo che per l’infernale semaforo di Piazzale delle Belle Arti). Una brezza leggera e gli stridii dei primi rondoni. Una falce di luna in una leggera foschia. Il teatro è pieno, ma il posto vicino a me è vuoto.
Tutto sembra più che propizio all’ascolto di un cantautore che ho molto amato, ma non ho mai sentito del vivo.
Poi, l’incubo. Le luci si sono già spente e si sta esibendo Simone Avincola. La pedana di legno sotto i miei piedi comincia a tremare, poi l’intera fila di poltroncine. Il pensiero corre per un attimo al terremoto (è tutto il giorno che la radio ci ricorda L’Aquila). No, è semplicemente un gigante, un orco, un minotauro, che si lascia cadere sul posto accanto al mio.
Arrivano i musicisti, Nicola Alesini e Paolo Capodacqua: una scossa. Entra Claudio Lolli, con il suo passo esitante e la sua schiena curva: un sobbalzo seguito da una sorda vibrazione. Comincia la musica: Shrek batte il piede provocando un effetto analogo a quello dei passi del T. rex nel bicchiere d’acqua in Jurassic Park. Lolli racconta, è sommesso e teneramente ironico: ma il minotauro lo trova di una comicità irresistibile, esplode in un riso squassante che fa scricchiolare l’impiantito.
Ma il peggio doveva ancora arrivare. Non so come dirlo: più il concerto gli piaceva, più il mio vicino lievitava. Come nella vecchia sigla di Blob, una massa informe di velluto a costine si gonfiava, lievitava, strabordava, tracimava oltre i braccioli della poltroncina. Mi sentivo come la Polonia, le mie paludose pianure diventate il Lebensraum altrui.
In queste condizioni, in questo spazio sempre più angusto, avrei potuto godermi il concerto? Bell’esempio di domanda retorica. Ovviamente no. Ovviamente tutte le aspettative sono andate deluse, o quantomeno sono state ridimensionate. E dire che Claudio Lolli, per me (ne ho parlato molte volte, qui qui e qui, ad esempio) è inseparabile dal 1977, quando Radio Città Futura e Radio Onda Rossa ce lo riproponevano ossessivamente).
Claudio Lolli stesso non ha aiutato: è ancora un simpatico entertainer, ironico al punto giusto. Ma non canta più, recita. Una via di mezzo tra lo Sprachgesang schönberghiano e il crooner americano, con qualche strascinamento delle iniziali (ma senza l’affettazione di Attilio Scarpellini). E poi non aiuta – lo so che non è politically correct prendersela con l’aspetto fisico di una persona – che ormai Claudio Lolli sembri il gemello separato alla nascita del Riff Raff di Rocky Horror Picture Show.
A parte gli scherzi, è stato un bel concerto e Claudio Lolli, con i suoi bravissimi musicisti, ha eseguito molte delle canzoni più belle del suo repertorio.
Tra cui ricordo queste (senza pretesa di metterle in ordine o di documentare una setlist):
- Borghesia (l’ultimo bis, per la verità)
- Quello che mi resta
- Quando la morte avrà
- Donna di fiume
- Primo maggio di festa
- Anna di Francia
- Ho visto anche degli zingari felici
- Analfabetizzazione
- Incubo Numero Zero (disoccupate le strade dai sogni)
- Adriatico
- I musicisti di Ciampi
- Folkstudio
Ma una almeno ve la devo far sentire, no? Analfabetizzazione!